Medical Humanities: quando medicina narrativa e farmacologia riducono il “dolore” psico-fisico

La mission delle Medical Humanities è quella di cambiare l’immagine  della medicina mediante un nuovo approccio terapeutico: tale disciplina  nasce in America sul finire degli anni ’60, con l’obiettivo di unire studi medico- scientifici con  discipline umanistiche.

Si sviluppa negli anni ’80 in relazione alla bioetica, focalizzandosi tanto sulle questioni quotidiane che sorgono dall’incontro tra sanitari e pazienti quanto sulla complessità della gestione dei processi decisionali in ambito gestionale e sanitario.

Le Medical Humanities guardano alla tutela e alla cura della salute come responsabilità collettiva, chiamando in causa i sistemi politici di welfare state, lavorando altresì sugli aspetti antropologici della cura e del prendersi cura come dinamica antropologica dell’inconscio collettivo (secondo i principi della psicologia del profondo di Jung). 

Le Medical Humanities sono interrelate con le scienze sociali e comportamentali (sociologia, psicologia, diritto, economia, storia, antropologia culturale), con la filosofia morale (bioetica, teoria della mente e teologia morale) e con le arti (letteratura, teatro, arti figurative, visive, fotografia, cinema).

Le Medical Humanities vogliono proporre una visione della medicina “per l’uomo”, ossia una nuova visione della malattia come costrutto da indagare, in cui i concetti di di “disease”, “illness” e “sickness” si intersecano, in cui il vissuto del paziente diventa la sua “narrazione” che lo porta ad una “crescita interiore” attraverso il percorso di malattia: la malattia diventa altresì possibilità di crescita personale. 

In fondo, chi decide se la mia patologia ed il mio dolore sono veri? Chi decide l’intensità accettabile del dolore, la soglia, che una volta superata, legittima l’intervento e la cura di ciò che definiamo patologia? 

Ecco, questo è uno dei temi più cari alle Medical Humanities. 

Temi cari alla Medical Humanities

Il dolore crea empatia ma anche stigma ed esclusione. Viene raccontato come forza e coraggio ma anche come sacrificio o colpa. Il dolore intreccia vissuti personali, culturali, sociali, disuguaglianze, stereotipi. Il dolore trova spazio in un ciò che chiamiamo trauma, vergogna e senso di colpa, per tali motivi è importante sollevare la persona dall’imbarazzo del dolore inutile

In questo contesto la cura può e deve diventare “rituale dell’atto terapeutico”, in cui non si somministrano solo farmaci ma anche spazi, odori, colori, parole dei curanti, cioè stimoli sociali e magico- simbolici (secondo lo spettro più ampio dell’antropologia culturale). 

Il placebo non è semplicemente un farmaco “Fake”, è l’insieme di questi stimoli, è la creazione di un rituale psico-emotivo che coinvolge processi animici e transpersonali. Potremmo dire che si somministrano “il senso e il significato del farmaco”, senza alcun principio attivo. 

E’ questo rituale che contribuisce a creare l’impatto positivo della cura, l’effetto placebo, o anche negativo, l’effetto nocebo, perché le parole e i simboli possono curare, guarire. Le storie della medicina narrativa diventano le storie del nostro inconscio collettivo, diventano storie di guarigione e redenzione, storie di espiazione di peccati che portano all’evoluzione sciamanica dell’intero albero genealogico di appartenenza. 

In particolare, gli studi mostrano l’efficacia del placebo, o del nocebo, proprio per il trattamento del dolore. La narrazione che accompagna la somministrazione può creare aspettative positive che generano effetti analgesici come un farmaco, attraverso la secrezione di endorfine, serotonina e dopamina.

Nello stesso tempo stimoli verbali negativi possono aumentare il dolore. Evitamento, ansia, astio e rabbia ostacolano il processo di cura. 

Gli studi dimostrano che la somministrazione di un farmaco senza dare la “corretta informazione terapeutica” è meno efficace di una somministrazione accompagnata da una relazione e una narrazione. 

È stato ampiamente dimostrato come l’impatto del setting e della storia di cura, sull’immaginazione del paziente, possano arrecare un profondo stato di benessere dell’assistito: avere “cura della relazione” diventa la “maniera più umana” di prendersi cura. 

Una somministrazione che avviene con un “rituale terapeutico” (ossia tramite il corretto linguaggio basato sull’empatia, tramite una gestualità coerente e rassicurante che coinvolga tutti i sensi del paziente), migliora l’efficacia del farmaco nella riduzione del dolore.

Qui si pone in evidenza il fatto che, qualsiasi terapia, ha due componenti: la prima è rappresentata dagli effetti specifici, per esempio di un farmaco, mentre la seconda è costituita dall’aspettativa del “beneficio terapeutico di tipo relazionale”. 

L’importanza di questa componente psicosociale e simbolica, osservata e raccontata dall’antropologia, è ora dimostrata dalla neurofisiologia e dalle scienze cognitive che studiano i processi decisionali dei pazienti e dei curanti.

Gli studi sugli effetti placebo e nocebo hanno una grande rilevanza per un’attuazione efficace delle norme sulla terapia del dolore.

Possiamo sostenere che è possibile curare il dolore solo con le parole o con simboli che creano aspettative positive? 

No, non è possibile perché il placebo non garantisce la stessa sicurezza di efficacia e di continuità nel tempo del farmaco, infatti non tutti rispondono nello stesso modo al placebo e la stessa persona può rispondere in modi diversi, a seconda della situazione. 

Possiamo automatizzare la somministrazione dei farmaci? No, se per automatizzazione intendiamo una somministrazione privata del suo senso e del suo significato. Anche un antidolorifico molto potente, privato dell’immaginazione creata dal rituale terapeutico ha un’efficacia ridotta. 

Automatizzare non significa però necessariamente utilizzare i computer, significa agire in modo automatico su un paziente visto e trattato come una macchina. 

La narrazione personalizzata della cura ha un ruolo fondamentale nel favorire un’immaginazione del dolore terapeutica, perché attribuisce al dolore un senso e un significato associati alla nostra identità, al nostro schema corporeo, al vissuto di malattia, alla percezione del percorso terapeutico come fasi di un decorso “iniziatico”.

Per una terapia del dolore efficace riduciamo le pillole in gola e migliorare l’appropriatezza della storia di cura come “cura della relazione”. 

Per approfondire: Cure Complementari: preziose alleate nel trattamento del dolore

Leggi anche: Nursing Transculturale: Oltre Le Frontiere Dell’etnocentrismo Per Una Visione Olistica Dell’essere Umano

di Susanna Maggione

Per informazioni